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Viene spesso domandato se la donazione dell’usufrutto abbia una qualche influenza negativa sulla circolazione del bene in relazione ad eventuali pretese dei legittimari.
E infatti noto che costoro possono, se insoddisfatti nella concretizzazione delle loro pretese rivolte ai donatari, agire nei confronti dei terzi aventi causa del bene donato (azione reale di riduzione).
La questione è se, essendo stato donato l’usufrutto, i legittimari del donante possano agire nei confronti degli acquirenti a titolo oneroso del bene oggetto di liberalità. Nonostante che tale caso si presenti spesso nella pratica legale la giurisprudenza raramente se ne è occupata. Si fa riferimento all’uopo a una vecchia sentenza della Cassazione, la n. 1987 del 6 giugno 1969, (in foro.it 1969 pag.3151). Qui si dice che poiché la donazione di usufrutto non è oggetto di collazione, dato che i frutti maturati fino alla morte del donante non sono dovuti, e considerato che i beni trasferiti oggetto dell’azione di riduzione, sono, per espressa previsione dell’art. 556 c.c. gli stessi oggetto a loro volta della collazione, da ciò deriva che l’usufrutto e in generale i frutti e le rendite donate, per quanto di essi maturati al momento della morte del donante, non hanno, al fine dei suddetti istituti, alcun rilievo ( art.745 c.c.).
Nonostante il fatto che recentemente tale soluzione, basata su una interpretazione delle norme estremamente piana e logicamente sviluppata, sia stata contestata principalmente da una parte del sistema bancario, ormai di fatto terrorizzato dall’assumere ipoteche su beni che in qualche modo siano ricollegabili a donazioni, la stessa appare tuttavia l’unica plausibile come, del resto, dimostrato indirettamente dal fatto che sul punto il contezioso è sempre stato minimo, in pratica essenzialmente ridotto al leading case, suddetto, che fa ancora scuola.
Applicando tali principi nel caso in cui un padre avesse fatto a un figlio la donazione dell’usufrutto di un suo bene, donato una rendita o lasciato godere gratuitamente lo stesso di un suo appartamento, non esisterebbe per il beneficiato l’obbligo di conferire tutto ciò in via di collazione. Si noti che mentre le somme, ad esempio, per avviare il figlio a una professione, sono in base all’art 741 c.c., oggetto di obbligo collatizio, non così avviene per le somme date a rendita. Ovviamente deve esserci una donazione di rendita, al cui adempimento il donante debba provvedere corrispondendola periodicamente. Tale differenza di trattamento rispetto, ad esempio, alla corresponsione una tantum di una somma di danaro a titolo liberale, benché è chiara leggendo le suddette norme, può apparire comunque una stortura, peraltro giustificata dall’intento eminentemente pratico del legislatore di evitare questioni sulla valorizzazione del godimento fornito gratuitamente dal de cuius. Si tratta dunque di un sistema legittimo per evitare sia la collazione che la riduzione e che il donante può utilizzare per avvantaggiare il beneficiato in modo assolutamente stabilizzato.